Il mito di James Dean e i giovani oggi in tempi di pandemia.

Di adolescenti in rivolta il cinema ce ne ha dati tanti
Goffredo Fofi
Ne riproduce un elenco esaustivo nell’ultimo libro da lui pubblicato, “Il secolo dei giovani e il mito di James Dean” (La nave di Teseo, collana “le onde”, pp. 94, €10,00). Le icone di una «gioventù bruciata», prendendo spunto dal titolo del celebre film di Nicholas Ray (1955) in cui si esalta il mito del protagonista James Dean, sono esaminate in queste pagine attraverso un’acuta critica storico-sociologica, che merita di essere presa in considerazione perché vi s’insinua anche il proposito velato di formulare, tramite un raffronto di vecchie e nuove generazioni di giovani succedutesi nell’arco di due secoli, un giudizio sui comportamenti giovanili contemporanei.

Questo saggio su James Dean si presenta, dunque, davvero incisivo e coinvolgente, in quanto il noto critico cinematografico non solo delinea una veloce e splendida panoramica sul mondo giovanile come era rappresentato nei film e telefilm del Novecento negli Usa, in Europa, in Russia, in Asia e in Africa – dando l’opportunità al lettore di apprendere una notevole varietà di informazioni e curiosità preziosissime sulla storia del cinema –, ma si propone anche di ritrarre l’identità dei giovani del Novecento allo scopo di misurarne il peso e la cifra di una «gioventù ribelle e rivoluzionaria» sul piano storico e culturale, ponendola a confronto con i giovani attuali.
Leggendo il volume ci si può fare un’idea su come l’adolescenza e la gioventù del Novecento si siano poste in faccia al «secolo breve», rispetto all’immagine di sé fornita dai giovani di questo primo ventennio del XXI secolo, un po’ diversa e in un contesto sociale mutato, obnubilato da internet e dai social e oltretutto caratterizzato dal virus pandemico del covid19. L’autore passa in rassegna le giovani generazioni che sono state falciate durante le due guerre mondiali, poi pone in evidenza i giovani del Sessantotto, quelli che protestavano contro la guerra in Vietnam, quelli della Cina Maoista, quelli che facevano il tifo per Gandhi, quelli che partecipavano ai meeting di Woodstock, quelli che andavano pazzi per i Beatles e Bob Dylan, quelli che aspiravano agli ideali di Che Guevara o Malcom X. Infine, eccolo: James Dean, esemplare perfetto di una gioventù frustrata, nevrotica, ribelle, inquieta, alla ricerca di valori che si rivelarono effimeri o non autentici, in perenne contraddizione con la morale borghese, i punti di riferimento genitoriali, i capisaldi tipici del mondo capitalista del successo, del potere e del denaro. James Dean, e prima di lui John Garfield, poi come lui: Montgomery Clift, Marlon Brando, Paul Newman, Steve Mc Queen. Modelli di una generazione giovane tra gli anni Cinquanta e Settanta, che il cinema sfrutta con zelo spasmodico da parte delle case di produzione e della fabbrica dei divi hollywoodiani, per identificare e raccontare un’epoca, quella del dopoguerra, dell’era atomica e dei due blocchi, di un mondo borghese-capitalista in continua ascesa, che i giovani sembrano subire sul piano psicologico, del carattere, dell’umore, e nello stesso tempo opporvi le loro fragilità, le loro inquietudini, la loro ribellione, manifestando e rispecchiando una forte tensione esistenziale. Che nel volto e nella figura di James Dean s’incarnò compiutamente. Quel giovane aveva fatto solo tre film, “La valle dell’Eden” (regia di Elia Kazan, 1955), “Gioventù bruciata” (regia di Nicholas Ray, 1955) e “Il Gigante” (regia di George Stevens, 1956), magistralmente analizzati nel libro tra pecche e pregi, poi la morte improvvisa per un incidente stradale. E nacque il mito. Un mito che fotografava una gioventù ribelle senza un motivo (dal titolo originale del film di successo “Gioventù bruciata”: “A rebel without a cause”). Sul piano artistico, lo studioso fa riferimento agli Actors Studio, al metodo Stanislavskij, al genio interpretativo di Marlon Brando, all’inquietudine di Montgomery Clift, citando persino il francese Gérard Philipe del “Diavolo in corpo” e i due attori italiani Maurizio Arena e Renato Salvatori del ciclo “Poveri ma belli”, con cui si va però da tutt’altra parte sul piano del genere cinematografico, con il taglio culturale ed elegante del cinema francese e quello tipico e leggero da commedia del cinema italiano. È stato solo con James Dean che si è potuto codificare la cifra culturale di una gioventù moderna, inquieta e contestataria, diventando un’immagine cult, un’icona ancora oggi sorprendentemente recepita. Ma Fofi sembra nutrire delle perplessità sua questo specifico punto. I giovani del XXI secolo possono paragonarsi ai loro coetanei del Novecento? Sembra che il confronto non regga. Essi sono solo ipnotizzati o “addormentati” da internet e dai social. La pandemia del covid in atto li vedrebbe, infatti, non pienamente consapevoli del rischio mortale che l’umanità sta correndo. Un moto di ribellione, tuttavia, è apparso all’orizzonte. Per salvare il pianeta. La protesta e l’esortazione a svegliarsi per proteggere il pianeta, la natura, l’ecosistema. E fa il nome di Greta. Si auspica che tanti e tanti giovani seguano l’esempio di Greta. Un appassionato di cinema potrebbe confondersi con la Garbo, naturalmente Fofi parla di Greta Thunberg l’attivista. Il mito di James Dean è un dato storico e culturale di grande importanza non solo per la storia del cinema, ma anche per cogliere gli umori e i temperamenti inquieti di una generazione giovanile che ha contrassegnato in modo marcato un periodo drammatico del XX secolo. I giovani del secolo dopo, quelli di un presente in cui smartphone e computer, videogames e social, internet e tutto il resto del mondo virtuale dettano le regole del gioco, forse non hanno più nulla da spartire con James Dean. Eppure Greta può fare la differenza.